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SOGNI RACCHIUSI NEL GUSCIO

Gian Giorgio Massara, critico d'arte, 2019

 

Raffaella Brusaglino esordisce, come pittrice, nel 2003 esponendo ben presto in Italia e all'estero, dal Messico, alla Spagna, alla Francia. Ripetutamente presente al premio Internazionale «Cesare Pavese» di Santo Stefano Belbo e all'importante concorso «Matteo Olivero», ottiene dalla Giuria di Candiolo il I° Premio. Sono gli anni nei quali il pubblico s'appassiona ai suoi "dialoghi muti" popolati da figure irraggiungibili e misteriose, - ora unite ora contrapposte - talvolta animate da uno sguardo magnetico e da occhi colore del cielo.

All'inizio del 2019 si assiste - nella produzione di Raffaella - a una svolta con la pubblicazione di una serie di opere intitolate GUSCI riferite all'universo immaginato come un uovo: ciascun dipinto è accompagnato, talvolta commentato con indiscutibile sensibilità, da versi o «scritture» di Chiara Vallini che legge nel corpus delle opere della Brusaglino intervalli di silenzi, il rumore del mattino, i corpi che non amano gli addii, il confondersi di sogni e ricordi: il timore, infine, del buio.

La forma perfetta dell'uovo affascina numerosi artisti, dal Novecento al terzo millennio, amanti del «sur naturel»: è la storia tuttavia a registrarne ora la presenza nel Sole - primo dio egiziano - ora nel cosmo considerato dall'Induismo, al di sotto del quale si pone
l' Inferno.

Per Raffaella il guscio consente di narrare i giochi infantili con ricordi che ci seguono nella vita, memorie primordiali, il volto di Alice il cui collo «si allunga sino al cielo», la ricerca del «primo passo della nostra esistenza». In uno dei dipinti, l'autrice seriamente guarda a un «filo d'erba piegato dal vento che non riesce a risollevarsi», mentre in altra opera un dialogo attende il momento di disegnarsi sulle labbra.

 

Gli intriganti dipinti della Brusaglino ci hanno da sempre attratto poiché racchiudono misteri e sogni nelle Case fluttuanti che sembrano rapite a un immaginario, nordico Medioevo come nel susseguirsi di finestre che idealmente possiamo ritrovare in certe anonime periferie di questo nostro inquieto secolo; infine, si identificano con la volontà di una donna che cammina senza mai voltarsi indietro.

L'attuale pubblicazione, dai mille interrogativi, è più intensa nei contenuti rispetto alle precedenti: dopo le quattro tele introduttive che sono da intendersi quale presupposto - intimi quadrati nei quali talvolta l'uso del metallo corroso viene mescolato al tenue sfolgorio dell'oro - ecco proporsi la sequenza dei gusci composti sempre da una parte informale o sommaria e da una serie di umane «espressioni», profili di volti femminili che, ancora a occhi chiusi, pur tendono alla luce del mattino.

L'intero corpo quasi non esiste, limitato alla presenza delle mani che si cercano, che reggono un'ipotetica luna; poi i piedi, ben disegnati ma quasi grotteschi, composti da ferro vero, mobile oppure lievi come un passo di danza.

Ma Raffaella, tutto a un tratto, avverte le necessità di nuovamente ambientare nel mondo reale il proprio lavoro, per cui in opere quali La formica compaiono trame di tessuto (Fiber Art?) a conferire profondità spaziale alla superficie dipinta; in altro caso è voluto il gesto di lasciar trapelare l'ordito reso ancor più significante dall'aggiunta di minuscoli grovigli di fili adagiati sul colore.

In un'altra opera ancora, poco a poco, gli occhi paiono socchiudersi al mondo: in Pozzanghera uno dei volti contrapposti - il prima e il dopo - simboleggia un'immagine che «triste per un addio ha pianto a tal punto da sciogliersi insieme alle lacrime».

Tecnicamente, il modo di procedere di Raffaella Brusaglino è di difficile realizzazione, con iterate meditazioni, surreali fantasie e ricerche di potenzialità. La pittrice ama accostare i neri - intesi quale colore a sè - a cromìe non brillanti, a sprazzi di cobalto, così come i preziosi metalli non squillano e i bianchi lattiginosi sono simili al «bianco dell'uovo» rappreso; e sullo sfondo, appaiono ora veloci colpi di luce, ora la superficie neutra della tela disposta quale materico tassello che consente ai sogni di galleggiare.

Ma soprattutto

«Bello è lo stupore. Bello è ciò che arriva senza preavviso».(c.v.)

APPUNTI INTORNO A GUSCI

Lorena Gava, critico e storico dell'arte, 2016

 

Gusci è il titolo di un suggestivo ciclo di opere dell’artista torinese Raffaella Brusaglino. Si tratta in realtà di un dialogo tra immagine e parola che celebra l’evento ancestrale e misterioso della «nascita» intesa come presa di coscienza, come identità legata all’essere. Potremmo definirlo un viaggio nella genesi di ogni individuo, dove ogni tappa è scandita da stupore e meditazione. 

Intorno al leitmotiv dell’uovo simbolo potente e antico di vita, di creazione e rigenerazione, di germe che presiede ogni differenziazione, si snoda un racconto di materia e di luce, di affabulazione e incanto.  Sulla scia dell’«uovo cosmico» tanto caro a Odilon Redon e tutta la poetica simbolista di fine Ottocento, Raffaella Brusaglino dispone un intreccio culturale e temporale di assoluta rilevanza. Sotto l’egida di uno spirito mistico e contemplativo, dalla forma ricorrente dell’uovo-guscio emergono profili netti e affusolati di volti e mani che se spesso ritornano nell’universo iconografico dell’artista, qui ci rimandano alle preziosità bizantine, suggellate dall’oro che a intervalli sapienziali illumina la scena. 

Alla purezza di certe linee e contorni, succedono le contaminazioni e ibridazioni proprie di una natura in-formazione, di una gestazione che sta per completarsi e rivelarsi. La materia-colore, le terre e i pigmenti scelti esprimono e seguono con mirabile aderenza la storia di questo itinerario evolutivo che porta alla conoscenza, alla determinazione. Ogni passaggio è accompagnato (e non potrebbe essere diversamente trattandosi di una «venuta al mondo») dalla sorpresa che diventa pasta cromatica originalissima nutrita del nero e dell’albedo, alla base di ogni processo alchemico. 

Le superfici scabre, aggettanti, nutrite talvolta di concrezioni che dal suolo rugoso e polveroso aspirano alla purezza siderale, creano brani di squisita elaborazione pittorica in cui al dettaglio, al «punctum» (citando Roland Barthes), succede il fascino delle masse indefinite, sfrangiate e slabbrate che anziché definire, suggeriscono molteplici orizzonti di senso. L’assenza di ogni indizio prospettico e il vuoto pneumatico che ci circonda di volta in volta il seme germinativo, creano effetti di spiazzamento, dentro galassie creaturali di forte impatto scenico. 

Gusci rappresenta sicuramente un momento di fervida ideazione e creazione nel percorso artistico della Brusaglino da sempre contrassegnato da un’immaginazione fulgida, surreale e fantastica, destinata, ancora una volta, a interrogare lo sguardo e scuotere gli animi. 

GUSCI

Donatella Avanzo, curatrice, 2019

Nella pittura di Raffaella Brusaglino si nota una nuova capacità di impaginazione, l’utilizzo della sostanza pittorica denota la profonda attenzione dell’artista alla pittura informale, con il soggetto che sembra navigare nella grande materia coloristica.

Il colore non è più uno strumento ma un soggetto pittorico attivo, un evento che si concretizza sulla superficie dell’opera. Siamo in presenza di quella tecnica mista che è per la Brusaglino una conquista necessaria, molto vicina per procedimento e resa finale a quella dell’intonaco. Il pigmento è movimentato da sovrapposizioni, screpolature, grumi, creste di colore con affioramenti metallici.

Allorquando tratta la figura femminile si confronta con la realtà più difficile da evidenziare  perché la più desiderabile: quella del corpo. Donne dalle braccia disarticolate, corpi che si sciolgono in brani di materiche geometrie, catturano lo sguardo del visitatore guidandolo in un luogo sospeso nel tempo dove il silenzio ha voce.

Il fascino innegabile delle sue opere si avvale dunque di un’infinità di elementi, c’è un lato che si rifà a un linguaggio misterioso, a una ispirazione di gusto naturalistico coniugato a un simbolismo magico, onirico e poetico. I suoi lavori sono infatti quasi sempre il frutto di un lento, complicato procedere della fantasia e della grazia vagamente malinconica che li anima.

Le opere presenti in mostra documentano con ampiezza di testimonianze l’itinerario artistico di un’autrice sensibile dal gusto raffinato.

MATERIA PRIMA

Alberto Salza, antropologo, scrittore, 2016

Da settantamila anni l’artista si scontra con una parete. Alle origini della preistoria, le danze tra i fuochi stroboscopici generavano all’occhio fosfeni colorati ed endottiche dalle forme strane. Poi tutto diveniva visione, in cervelli dalla chimica alterata. Così iniziavano i viaggi nel mondo dello spirito, al di là della parete. Al risveglio doloroso seguiva lo sguardo verso il mondo reale, per poi tornare alla parete. E si cominciava a toccare la roccia, a spalmarla di pigmenti colorati, a inciderla con altra pietra, affinché i segni divenissero ricordi, narrazioni e metafore del mondo dello spirito. C’è il di qua, si sogna il di là: in mezzo, sottile, la parete di materia grezza.

 

I quadri di Raffaella Brusaglino contengono le tre dimensioni del realismo, del sogno e dell’ipermateria: non quella di tutti i giorni, ma quella spalmata sulla parete in un’invasione di quinte pittoriche e dorature argentate da paravento giapponese. La realtà è qui antica come un evo medio, e sta nelle forme umane: lisce, glabre, in arti scollegati, schiene ricurve come catenarie, dita allungate, guance di pesca, nasini e boccucce, mai caricatura. Il sogno è affidato all’acqua, il liquido dell’occhio che vede al di là della parete, oppure a forme invadenti di una specie di pesce metastorico, in fase di evoluzione sotto chissà quali forze innaturali, le quali talvolta appaiono come un albero rovescio che ha radici nel cielo o sotto forma di chele di cancro. Su tutto interviene la materia delle quinte, calde di tavolozza cromatica (mai un fucsia o un verde acido), le quali spaccano i due mondi affastellati in geometrie sfrangiate. D’altra parte, la funzione primaria di ogni artista è ricreare un ordine dal caos.

 

Protagonista assoluta è la donna, padrona della parete. Anche le figure maschili sono in qualche modo femminilizzate. Son tutte donne di cappello, come le vere signore, pur se talvolta i copricapo si aprono come fiori nel giardino di Alice o si fanno adescare dagli ori e dagli argenti. Non sono donne operose, o intente ad alcunché, ma hanno spesso posture difficili da sostenere, come fossero impegnate a mutare condizione e curvatura dello spazio, alterando la gravità. Qualcuna di esse impugna strumenti: un punteruolo o forse una fusarola o un sistro, un archetto. Aggiungono una dimensione sonora: la musica nel quadro. Il fatto che siano in qualche modo aguzzi o puntuti, ne fa l’equivalente delle frecce di guarigione degli sciamani, intenti a battersi con il male.

 

Nelle donne di Brusaglino si avverte un certo disturbo. Molte sembrano in attesa di un evento. Altre paiono subvocalizzare una frase di preoccupazione: «Ma chi c’è mai, laggiù? Chi?». Nessuna parla, poche agiscono, tutte guardano. Ma non guardano te. Sono occhi, spesso cerulei e vetrosi come si confà ai volti rinascimentali, che si volgono verso una dimensione di femme savant da cui siamo esclusi. Voi che contemplate la parete, pensate a occhi di bambini autistici, mai volti verso chi sta innanzi; oppure allo sguardo delle donne vissute, quelle che sanno ciò che nessuno chiede loro.

 

A me ricordano gli occhi di un amico d’Africa. Ci separammo in una qualsivoglia savana, dopo anni e miglia di cammino. Mi toccò la mano (hanno mani lunghe e sottili laggiù, come le donne dei quadri), posò lo sguardo su qualcosa a novanta gradi, ruotò su se stesso e se ne andò per sempre in una quinta di polvere. Senza mai voltarsi. Lo so perché rimasi a guardarlo per vedere se lo avrebbe fatto.

Come ha detto Henri Cartier-Bresson: «È così difficile guardare. Abbiamo l’abitudine di pensare, riflettere sempre, più o meno bene; ma non si insegna alla gente a vedere». Tornate, davanti al quadro, all’antica parete. E vedete la musica ascoltando la danza.

MATERIA PRIMA

Marilina di Cataldo, 2016

 

Sembrano favole lievi, sogni delicati, i personaggi dipinti da Raffaella Brusaglino, immersi in una dimensione che se non è espressamente liquida è sicuramente fluida, calma, ondeggiante. Ma la ieraticità e la compostezza dei soggetti, nasconde l’inquietudine dell’esistenza umana. Domande silenziose ma intense e penetranti, che le figure rivolgono attraverso lo sguardo a qualcuno o qualcosa che sta al di là di loro. A volte sono sagome che ricordano esseri marini, forse i dugonghi, forse grossi crostacei di cui si vedono solo le chele: animali che riportano alla memoria forme ancestrali e primordiali. A volte l’essere atavico si compenetra e  si fonde quasi con la figura stessa, in un abbraccio che include e unisce. 

 

Lo spettatore rimane catturato da questo movimento languido e rimane come in attesa. Riuscirà a sentire le risposte? Ci sono delle risposte? Forse si, forse no. Nel frattempo si ferma e pensa, riflette. E intanto la materia del quadro comincia ad emergere. Già perché i materiali che Raffaella Brusaglino utilizza per realizzare le sue opere non sono «semplici» acrilici. Forte della sua competenza come pittrice di pareti (ma è anche illustratrice e scenografa), l’artista recupera l’esperienza e la applica, adattandola, nel lavoro che realizza sulle tele: per avere una base strutturale bella corposa utilizza polvere di marmo, colla, gesso; per dare luminosità alle figure in modo che risaltino dai colori più sordi del fondo, mescola acrilico e olio; per dare lucentezza allo sfondo e fare emergere le figure, usa fogli di metallo dorato o argentato, che donano una sorta di aurea fatata alla composizione. Tutta la superficie della tela diventa così ugualmente importante. A volte, addirittura, è lo sfondo che diventa il protagonista, perché la lavorazione avviene a strati, non è mai definita prima. O meglio, un’idea abbozzata esiste, ma poi sono le curve e le linee che si incrociano, si sovrappongono e pian piano prendono forma, a definire ciò che verrà.

 

E può avvenire che le figure, che più che donne sono presenze archetipe, né femminili, né maschili, né giovani, né vecchie, impugnino qualcosa che potrebbe essere uno strumento musicale immaginario, magico, rituale, consegnando a questi personaggi una connotazione spirituale, che li trasfigura in novelli apostoli di chissà quale messaggio divino. Come se si trattasse di personaggi usciti da un racconto metafisico-fiabesco, di cui si è perso il filo della narrazione e che ha lasciato il posto a dialoghi quieti, a vaghe allusioni, a gesti dalla forte carica simbolica, che sfidano l’osservatore ad una attenta e stimolante lettura. Opere che sembrano contenere un messaggio segreto, una simbologia tutta interna, tutta da scoprire, e che nei minimi gesti, nel gioco degli sguardi di cui dicevamo prima, e nelle relazioni dei suoi protagonisti celano un mistero di cui forse neanche l’artista possiede la chiave.

 

 

INTERVISTA DI CAM

 

«Da perfetta ansiosa quale sono, arrivo in largo anticipo all'appuntamento. Ne approfitto per guardarmi attorno, comodamente seduta nel bar-gelateria di via San Donato scelto per il nostro incontro.

Conosco bene questo quartiere torinese, così particolare con la sua doppia anima borghese-popolare: periferia di primo livello, le vie tracciate con il righello, trafficate e discretamente inquinate.

Poco è cambiato nella sua essenza e nell'atmosfera da quando, ragazzina, esploravo i suoi mercati (anch'essi uno popolare, uno borghese e un po' discosto), le sue vie e i negozi mentre facevo la spesa per i miei nonni. Affascinata dai cortili e dalle basse case di ringhiera, intrigata dai palazzotti Liberty, terminavo il mio giro nella latteria

dei signori Littizzetto, la miglior panna montata del quartiere.

Ad intrattenermi, oltre ai miei pensieri, le chiacchiere da bar: un miscuglio di dialetti, governati dal solido piemontese del gestore del locale. Così, mentre penso ascolto ricordo, vedo arrivare Raffaella.

Giovane, bella, alta, elegante in cappotto blu e cappello di feltro grigio.

Sorriso dolce e disarmante, occhi luminosi e sguardo determinato, mani eleganti, da artista.

Un saluto affettuoso, due caffè con panna, un minuscolo tavolino.

Tiro fuori i miei appunti, carta penna e possiamo iniziare».

 

CAM – Nel panorama artistico torinese sei considerata una delle artiste emergenti. Come si è evoluta la tua vita di artista?

Raffaella – Ho fatto molte e differenti esperienze, in Italia e all'estero. Dopo lo IED ho lavorato come illustratrice, decoratrice di interni, poi sono approdata al teatro in veste di scenografa. Questo periodo per me è stato determinante, l'esperienza teatrale mi ha insegnato la potenza comunicativa del gesto, la sua forza e valenza nel trasmettere significato. Lo studio dell'arte antica, le raffigurazioni bidimensionali del '200 e '300 prive di prospettiva, hanno suscitato in me un particolare

senso di potenzialità comunicativa, in quanto liberano spazio all'interpretazione, è come se la stilizzazione dei tratti potenziasse significato rendendoli maggiormente significativi e comunicativi.

Tutte le esperienze svolte, in particolar modo l'affresco su calce, fanno parte del bagaglio che mi porto appresso e che oggi deposito sulle tele.

 

CAM – Vuoi parlarmi dei tuoi lavori più recenti?

Raffaella – I miei lavori attuali riflettono la mia esperienza, in particolare nella stratificazione dei materiali e dei diversi metodi impiegati. In

essi emerge la mia passione per l'affresco su calce e il fascino che esercita su di me l'osservazione di antichi muri ricoperti di diversi

strati di pigmenti, i segni del tempo, la relazione tra le forme che l'uomo deposita e il tempo che passa. L'avvenimento ha una valenza che si

riflette sulle forme e le cambia in altro, continuamente. Un po' come nelle mie opere attuali, composte da materiale diversi.

CAM – Oggi ti stai dedicando prevalentemente alla pittura su tela. I personaggi raffigurati sono prevalentemente donne, sbaglio?

Raffaella – Donne, tantissime donne, ma anche altri elementi come la musica, l'acqua, intesi quali elementi evocativi. E poi gli animali

marini preistorici, sopravvissuti al tempo, simboli di esperienza e saggezza.

CAM – Come nasce un tuo dipinto?

Raffaella – Parte da un'ispirazione, un'idea di base. Dispongo di materiali disparati quali gesso, gomma lacca, stucco, carta, lamine di metallo, bitume, colori acrilici o a olio, pennello e spatola. Il mio lavoro è un divenire, succedono cose e io le seguo, le assecondo, le linee creano spazi e profondità, modellano curve e tracciano idee, emozioni.

Rappresento i miei personaggi come colti in un fermo immagine.

Questo «escamotage» mi consente di potenziare la valenza comunicativa

ed espressiva di cui ho parlato prima. Quella stessa valenza che arricchisce il gesto teatrale.

CAM – Le donne dei tuoi quadri sono state descritte da un tuo critico come «donne di cappello, come le vere signore» e non posso che

dirmi d'accordo, tu cosa ne pensi?

Raffaella – Le donne racchiudono in sé quella magia che unisce corpo e anima, fisico e spazio, riflessione e movimento. Le donne rappresentano l'esperienza e la trasformazione. Il loro modo di rapportarsi, l'inconsapevole saggezza, l'emotività, i cambiamenti che subiscono nel tempo, comportano trasformazione di forma e di sostanza.

Sono l'essenza dell'esistere.

CAM – Le donne nei tuoi quadri sembrano sospese tra sogno e realtà, come in attesa, immerse nella materia e negli spazi definiti da

quinte sceniche.

Raffaella – Non solo. A volte guardano con occhi di donna che sanno.

A volte suonano l'arpicordolo, altre incontrano animali preistorici,

non parlano ma comunicano.

CAM – Ultima domanda: di che sostanza è fatta una donna artista?

Raffaella - E' fatta di carne, nervi, ed emozioni.

 

CAM, 2017

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